Bosnia-Erzegovina
Ribellione contro il capitalismo, l'imperialismo e le privatizzazioni
Scritto di Alejandro Iturbe
Traduzione di Mauro Buccheri
Dopo molti anni dalla lotta per
la sua indipendenza dalla Federazione jugoslava, la Bosnia Erzegovina
torna a fare notizia sui media. Questa volta, per una ribellione operaia
e popolare contro il suo governo e le conseguenze della restaurazione
capitalista e le privatizzazioni d’imprese statali.
La
Bosnia-Erzegovina è una piccola repubblica di quattro milioni
d’abitanti e poco più di 50.000
km quadrati di superficie, ubicata nella penisola dei
Balcani, in Europa Centrale, la cui capitale è la città di Sarajevo.
Tra i secoli XV e XIX, fu parte
dell'impero turco ottomano, e ciò fece sì che parte consistente della sua
popolazione si convertisse all'islamismo; tra il 1878 e il 1918 fece parte
dell'impero austro-ungarico (dissolto dopo la Prima guerra mondiale); in seguito, a partire da
1918, passò ad essere parte del regno di Jugoslavia; durante la Seconda guerra, tra 1941 e
1944, fu annessa allo Stato fascista croato, dominato dai nazisti, e, dopo la
sconfitta di questi ad opera dei guerriglieri comunisti di Tito, rientrò nella
Federazione jugoslava col nome di Repubblica socialista della
Bosnia-Erzegovina. In seguito all'esplosione della Federazione, dichiarò la sua
indipendenza nel 1992.
Nazione oppressa
Si tratta di una nazione che ha
sofferto una lunga lista d’oppressioni durante la storia, poiché perfino
nell'epoca dello Stato operaio della Federazione jugoslava, nel quale visse un
periodo caratterizzato da una certa prosperità e sviluppo industriale, la
nazionalità predominante nella Federazione era quella serba, che opprimeva le
altre.
D'altra parte, come risultato di
questa storia, la
Bosnia-Erzegovina presenta un'alta complessità etnica: il 50
percento sono bosniaci musulmani (chiamati bosniaci), il 30 percento sono
serbo-bosniaci e il 20 percento sono bosniaco-croati.
La Federazione jugoslava
Durante la Seconda guerra mondiale, la Jugoslavia fu dominata
dai nazisti e divisa in due Stati: la Croazia (che includeva l'attuale Bosnia), e la Serbia. L'esercito
d’occupazione dovette affrontare una dura resistenza da parte dei partigiani
comunisti guidati da Josip Broz (il maresciallo Tito), che, nel 1944,
sconfiggono le forze occupanti.
Dopo la riunificazione delle
nazioni e del territorio del vecchio regno di Jugoslavia, nel 1945, nasce la Repubblica Federale
Popolare della Jugoslavia che nel 1963 fu denominata Repubblica Federale
Socialista (la componevano Serbia, Croazia, Slovenia, Macedonia, Montenegro e
Bosnia-Erzegovina).
Durante quel processo, la Jugoslavia si trasforma
in un nuovo Stato operaio burocratizzato.
Tito si ribella alle direttive di
Stalin (che voleva compiere la divisione territoriale d’influenze concordata
con l'imperialismo a Yalta e Postdam), e si allontana allora dall'apparato
stalinista centrale.
A partire dall'economia pianificata, la Jugoslavia ha un certo
sviluppo e miglioramento economico che, in Bosnia, si esprime in una maggiore
industrializzazione, specialmente nella città di Tuzla.
Inizio della crisi...
Tuttavia, tanto il peso della burocrazia titoista come,
essenzialmente, l'impossibilità dello sviluppo del “socialismo in un solo Paese”
(meno ancora in uno piccolo), cominciano a provocare seri problemi economici
negli anni'60.
Si registravano riduzione
dell'occupazione, aumento dei prezzi ed acutizzazione del deficit commerciale.
Tutto ciò nel quadro di differenze salariali rispetto ad un'importante cappa di
tecnocrati-burocrati che controllavano le fabbriche ed i lavoratori.
Nel 1963 comincia una politica di
decentralizzazione economica ed apertura al mercato mondiale nel commercio
estero e nel sistema bancario (si autorizzarono banche create dalle imprese).
L'inflazione era sempre più alta. Nel decennio '70, si chiedevano crediti
ingenti all'estero per mantenere settori industriali ed il debito estero crebbe
fino a 18.600 milioni di dollari (all'epoca, uno dei più alti del mondo).
I piani applicati dai successori
di Tito, morto nel 1980, completarono il processo di restaurazione capitalista
ed aggravarono il quadro: nel 1989 ci fu un'iperinflazione (1.200 %). I salari
reali caddero del 41% e le entrate erariali che sarebbero dovute essere
trasferite alle repubbliche e province furono impiegate per pagare il debito di
Belgrado ai club di Parigi e Londra.
… e la sua esplosione
Questa profonda crisi economica
esacerbò il nazionalismo ed il centralismo gran serbo (oppressore delle altre
nazionalità della Federazione). Ricordiamo che, perfino al tempo di Tito, uno
dei suoi ministri (Cubrilovic) aveva dichiarato che era "un insulto la
presenza di musulmani nella culla della nazione serba”, riferendosi alla
regione del Kosovo.
Questa combinazione tra crisi ed
oppressione, esplose dopo la caduta del Muro di Berlino che cominciò a spazzar
via l'apparato stalinista mondiale. Sebbene il titoismo e la Jugoslavia formavano un
apparato a parte, questo era costruito sullo stesso stampo e le stesse
premesse.
La Federazione esplodeva
e le sue repubbliche cominciarono a ribellarsi e dichiararono la loro
indipendenza. In Croazia e Slovenia, appoggiate dalla Germania, la Serbia dovette accettare
malvolentieri. Ma non fece lo stesso con la Bosnia.
La guerra civile
In questo caso, era disposta ad
impedirla militarmente o, come minimo, a mantenere una parte del territorio.
Nel 1991, l'esercito
serbo invase la Bosnia
e “camuffandosi” insieme a corpi armati formati dalla popolazione di origine
serba, iniziò una cruenta guerra civile contro i bosniaci e i bosniaco-croati
(anche questi appoggiavano l'indipendenza).
In quella guerra i serbi
arrivarono ad occupare il 70% del territorio e svilupparono una politica
sanguinaria di pulizia etnica nelle regioni del Paese in cui i serbo-bosniaci
avevano maggiore presenza. Il bilancio fu di 250.000 morti, la maggioranza
bosniaci, e quasi il 40% della popolazione dovette fuggire dalle proprie case.
L'Onu fu complice di questo massacro, tanto con la votazione di un “embargo
delle armi” ai bosniaci quanto per il fatto di abbandonare, in varie occasioni,
le "zone" liberate alla pulizia etnica (fu il caso del massacro di
Srebrenica, con 10.000 morti).
Gli Accordi di Dayton
L'indipendenza bosniaca fu, in realtà, relativa, poiché, sulla base dell'accordo, rimanevano nel Paese forze dell'Onu ed anche una forza di polizia internazionale. In quella cornice, si svolsero le elezioni per scegliere le autorità di governo.
Il dopoguerra
Terminata la guerra, il Paese fu
virtualmente colonizzato dalle potenze imperialiste, specialmente dalla
Germania. I “prestiti per la ricostruzione” arrivarono in quantità minori
rispetto alle promesse e furono in realtà utilizzati per pagare i debiti col
Fmi e la Banca
centrale tedesca.
Allo stesso tempo, avanzò lo
sfruttamento delle risorse naturali (depositi di carbone e petrolio) e la
privatizzazione (con riduzione o chiusura e smantellamento) della maggioranza
delle imprese industriali (molte di loro con impianti a Tuzla).
Una crisi permanente
La Bosnia è attualmente una
delle repubbliche più povere dell'ex Jugoslavia. Nel 1991, un anno prima della
guerra, in piena crisi economica dell'ex Jugoslavia, il Pil era di 14.000
milioni di dollari, oggi è si è ridotto rispetto ad allora del 37%.
Questo è dovuto ad una
combinazione di fattori. Da una parte, è chiaro, la guerra lasciò una scia di
distruzione. Ma a questo dobbiamo aggiungere le conseguenze della
colonizzazione imperialista ed il saccheggio cui fu sottoposto il Paese, con la
sua dipendenza dal capitale straniero e la sua ubicazione nell'area europea
pro-euro.
Le privatizzazioni di imprese
statali furono davvero “criminali”, soprattutto nella regione industriale di
Tuzla: tra il 2000 e il 2010, antiche imprese pubbliche che davano impiego alla
maggioranza della popolazione furono vendute a proprietari privati che smisero
di pagare i lavoratori e le lavoratrici, dichiarandosi in fallimento e
liquidando gli attivi. Un gran numero di lavoratori rimasero disoccupati e
privati dei diritti sociali, come la possibilità di accedere alla pensione, perché
non hanno il minimo di anni necessari per ottenerla. Un esempio di ciò è la
fabbrica Dita che produceva detergenti, ed impiegava 110 persone alle quali si
devono 27 mesi di stipendi e 50 di contribuzione pensionistica ed assicurazione
medica, oggi epicentro del sollevamento popolare. Il proprietario è un grande
imprenditore di Sarajevo che comprò questo ed altri impianti quando lo Stato li
privatizzò, e che li ha lasciati morire a poco a poco o li ha “rottamati”.
Altre fabbriche sopravvivono a fatica e con pessime condizioni di salario e
lavoro.
La ribellione attuale
Come abbiamo detto, l'attuale
ribellione incominciò nella fabbrica Dita di Tuzla che, senza prevederlo, ha
innescato la miccia dello scontento in tutto il Paese. “Da due anni, manifestavamo
tutti i mercoledì per reclamare il nostro denaro. Alla fine, tutto è cambiato.
Adesso sentiamo di essere sostenuti”, spiega nel cortile della fabbrica Mirza
Bukvic che ha occupato gli stabilimenti con altri compagni “per evitare che il
padrone si porti via le cose di valore”.
Da Tuzla, il movimento si è
esteso verso Sarajevo, Bihac ed altre città. Le assemblee si moltiplicano ed
elaborano piattaforme di rivendicazioni, superando tanto le differenze
generazionali come etniche. Si comincia a dar forma a un Fronte di
coordinamento delle assemblee che, di fronte all'accusa di “produrre eccessi”,
risponde “chi semina miseria raccoglie colera”
Inoltre, hanno dichiarato: “Noi,
che siamo scesi nelle strade, esprimiamo il nostro dispiacere per le ferite e
danni causati, ma esprimiamo anche il nostro dispiacere per le fabbriche, gli
spazi pubblici, le istituzioni scientifiche e culturali, le vite umane
distrutte dalle azioni di quelli che stanno al potere da vent'anni”
È una forza auto-organizzata che
cresce sempre di più. I manifestanti cominciano a chiedere le dimissioni
dell'attuale governo, guidato da Nebojša Radmanovic, (vero campione della
corruzione e del malaffare, come tutti i
governi che lo hanno preceduto dagli Accordi di Dayton), e la costituzione di
un nuovo governo composto da membri che non siano stati al governo e che
rendano settimanalmente conto alla popolazione, oltre alla confisca delle
fabbriche privatizzate e la loro riattivazione, insieme all'equiparazione dei
salari di ministri ed alti funzionari del governo con quelli degli impiegati
pubblici e lavoratori industriali.
Alcune conclusioni
Quello che succede in
Bosnia-Erzegovina è una dimostrazione di quello che accade in gran parte
dell'est europeo dopo la restaurazione del capitalismo, come si può vedere in
altri Paesi, come l'Ucraina e la
Bulgaria dove, allo stesso modo, i lavoratori e le masse
popolari si sono sollevate contro i loro governi.
Cioè, la restaurazione
capitalista, e la colonizzazione imperialista che n’è conseguita, lungi dal
produrre i miglioramenti promessi, hanno determinato un grandissimo calo della
produzione di ricchezze, un impoverimento generale della popolazione ed una
forte corruzione dei governi. La situazione della popolazione è di gran lunga peggiore
che durante l'esistenza degli Stati operai burocratizzati. La Bosnia è forse il caso più
esacerbato, ma gli altri Paesi vanno in quella direzione.
La ribellione operaia e popolare in Bosnia è
perciò profondamente legittima e merita tutto il nostro appoggio e
solidarietà.
D'altra parte, è necessario
trarre la conclusione che le conseguenze dell'attuale situazione potranno
essere davvero risolte solo se si abbatte l'attuale sistema capitalista (con i
suoi inevitabili effetti e la colonizzazione da parte dell'imperialismo
europeo), costruendo un nuovo Stato operaio e avanzando nella costruzione del
vero socialismo, basato sulla democrazia delle organizzazioni operaie e
popolari, senza la burocratizzazione stalinista e l'oppressione dell'epoca
della Federazione e senza l'assurdo tentativo di costruire il socialismo in un
solo Paese, base “teorica” di quel modello.
In questo senso, le attuali
assemblee e il loro coordinamento nel Fronte possono essere la base di un nuovo
Stato operaio bosniaco, i cui lavoratori e le cui masse oppresse hanno mostrato
ampiamente capacità di lotta e sacrificio.