Elezioni in Egitto
Vittoria di Al-Sisi, ma…
di Eduardo Almeida (*)
Nelle
recenti elezioni presidenziali in Egitto il maresciallo Al-Sisi è stato eletto,
secondo i discutibili dati ufficiali, con il 96,9% dei voti. Sarebbe una
vittoria consacratrice se non fosse accompagnata da un’astensione maggioritaria
della popolazione.
Secondo
i dati ufficiali, ha votato soltanto il 46% del popolo egiziano; molto meno
dell’80% previsto da Al-Sisi. Ma anche questa percentuale è messa in dubbio
dagli osservatori indipendenti. Solamente il 15% ha votato il primo giorno
delle elezioni, mentre nei giorni successivi l’affluenza è stata decisamente
minore. Il governo ha esteso di un giorno la votazione, ha offerto trasporti
gratuiti per gli elettori ed è arrivato a minacciare una multa di 500 libbre
egiziane (70 dollari) per chi non fosse andato a votare. Non è servito. In
alcune urne non si è presentato nemmeno un elettore.
L’astensione
è stata la forma di protesta più importante utilizzata dalle masse.
L’opposizione borghese, con a capo El Baradei, ha appoggiato Al-Sisi. La
candidatura di opposizione di Hamdeen Sabahi ha ottenuto il 3,1% dei voti. Non
si è trasformata in un’alternativa reale; ha contribuito soltanto a legittimare
un’elezione fraudolenta.§
La
grande astensione non è un dato di poco conto se si considera la situazione
politica del Paese. E’ un’indicazione del fatto che il processo rivoluzionario
iniziato con la caduta di Mubarak resta aperto.
La
caduta di Morsi, il primo governo eletto nel Paese da decenni a questa parte, è
stata considerata da molti il segnale della fine della “primavera araba” o, in
altri termini, del processo rivoluzionario. Il sostegno ai militari veniva
considerato come un’indicazione della sconfitta della rivoluzione.
Questo
tipo di analisi non comprende che l’assenza di direzioni rivoluzionarie di
massa rende confusi i processi politici, con innumerevoli alti e bassi. Il
processo egiziano, per via delle sue particolarità, è uno dei più complessi.
Per
noi questa astensione rappresenta la prima dimostrazione del logoramento della
dittatura militare simbolizzata da Al-Sisi. Tra flussi e riflussi il processo
rivoluzionario resta aperto.
I militari in Egitto: molto più che il ruolo tradizionale delle Forze Armate
Le
Forze Armate compiono in qualunque Stato borghese il ruolo centrale di
mantenimento dello Stato. Sia in una dittatura militare che in una democrazia
borghese, lo Stato si poggia sostanzialmente sulla propria base militare.
La
differenza in questi casi sono i regimi, la combinazione di istituzioni con cui
viene esercitato il potere politico. Quando i governi (o i parlamenti) che
esercitano effettivamente il potere sono eletti, si tratta di una democrazia
borghese. Quando sono le stesse forze armate a dirigere il Paese, si tratta di
una dittatura militare.
Alcune
volte si verifica un travestimento del regime, come nel caso dell’Egitto. Il
potere è nelle mani delle forze armate, ma esiste un governo “democratico” che
non conta nulla. Cadde il governo di Mubarak ma il regime militare non fu
sconfitto.
La
più grande contraddizione del processo rivoluzionario egiziano è che le Forze
Armate (principale nemico della rivoluzione) posseggono un grande prestigio nel
Paese. Ciò trova una spiegazione, in primo luogo, nella storia dell’Egitto.
Furono i militari, guidati da Nasser, ad espropriare il Canale di Suez e a
combattere militarmente Israele durante la “Guerra dei Sei Giorni” (1967).
In
secondo luogo, il prestigio dei militari è dovuto all’abilità politica con cui
affrontarono le ultime crisi. Quando, nel 2011, l’ascesa minacciò di rovesciare
il regime militare, la cupola dell’Esercito costrinse Mubarak a rinunciare al
potere. L’odio delle masse fu dirottato verso il governo, mentre il regime
militare restò in piedi, anche se debilitato.
Quando
il governo Morsi, il primo eletto, si scontrò con una ribellione di massa, i
militari fecero un golpe. Usurparono una legittima vittoria del popolo egiziano
e preservarono il regime militare.
L’elezione
di Al-Sisi è un mezzo per legittimare questa dittatura con un abito
democratico. Egli era già il dittatore che comandava nel Paese, e ora è il
presidente eletto.
Ma
i militari non sono soltanto il centro dello Stato, del regime e del governo in
Egitto. Sono anche parte fondamentale delle classi dominanti. Una forte
borghesia si è formata a partire dall’alto comando delle forze armate che hanno
controllato lo Stato per decenni, le quali controllano il 40% dell’economia del
Paese. I militari dirigono imprese nei rami più importanti dell’economia, dalla
costruzione civile alla produzione di alimenti. Lo scorso marzo, per esempio, è
stato annunciato un progetto abitazionale tra l’Esercito e l’impresa di
costruzioni Arabtec degli Emirati Arabi Uniti, il cui valore è stimato in 40
miliardi di dollari.
Un logoramento dell’insieme delle istituzioni
La
crisi economica internazionale ha provocato un aumento significativo della
miseria in Egitto, che rappresenta la base materiale dell’inizio della
rivoluzione. E’ uno dei Paesi arabi più poveri, con il 48,9% della popolazione
che vive al di sotto della soglia di povertà.
Questa
realtà è solamente peggiorata dopo la caduta di Mubarak. Il turismo, settore
principale dell’economia, è caduto del 27% a partire dal 2011. La
disoccupazione è passata dall’11% del 2011 all’attuale 13,5%. Le riserve di
valute internazionali sono passate da 35 miliardi di dollari a 15 miliardi. Le
città a corto di elettricità, senza acqua corrente e con strade immonde completano
lo scenario di miseria.
I
diversi governi che si sono succeduti dopo la caduta di Mubarak hanno cercato
di superare la crisi economica con la classica ricetta neoliberale: attaccare
ancor di più la popolazione. Inoltre, hanno cercato di restringere le libertà
democratiche conquistate nel 2011.
Morsi
governò in modo disastroso, imponendo il medesimo pieno neoliberale di Mubarak,
reprimendo e assassinando migliaia di persone. Cercò di imporre a sangue e
fuoco il progetto economico, politico e religioso della Fratellanza Musulmana.
Il
governo di Hazem El Beblawi che gli succedette utilizzò la repressione contro
la Fratellanza per attaccare l’intero movimento di massa. Furono uccise tremila
persone e altre 22 mila vennero imprigionate. Le marce e le mobilitazioni
furono represse. Oltre alla Fratellanza Musulmana fu dichiarato illegale anche
il Movimento 6 Aprile, che svolse un ruolo importante durante la caduta di
Mubarak e nella lotta contro Morsi. Recentemente sono stati condannati a morte
682 prigionieri della Fratellanza Musulmana.
Un
recente sondaggio del Pew Research Center indica che il risultato di
tutto questo è un logoramento dell’insieme delle istituzioni del regime. Sono
più gli egiziani insoddisfatti (72%) che quelli soddisfatti (24%) della
situazione del Paese. I militari avevano un una popolarità pari all’88% dopo la
caduta di Mubarak, del 73% dopo la caduta di Morsi e del 56% oggi. Lo steso
Al-Sisi ha una popolarità del 54%, con un 45% di oppositori.
Morsi,
leader della Fratellanza Musulmana, aveva circa un anno fa, prima della sua
caduta, una popolarità del 53%, oggi del 42%. Questa percentuale, pur essendo
minore, è ancora significativa se si considera la proibizione
dell’organizzazione e l’imprigionamento dei suoi leader da parte del governo. I
tribunali, che un anno fa avevano un’immagine positiva per il 58%, hanno ora,
dopo le sentenze autoritarie, una popolarità minoritaria del 41%. Tutto ciò dà
un’idea generale del logoramento dell’insieme delle istituzioni, che si esprime
nell’alta astensione elettorale.
Il processo resta aperto
Adesso
i militari potranno certamente guidare per via diretta il governo del Paese.
Non muoveranno più le fila del regime per mezzo di altri, ma assumeranno loro
stessi il volto del governo. Questo fatto apre la possibilità che le masse
facciano la loro esperienza con i militari.
L’imperialismo
americano appoggia Al-Sisi, come anche i governi di Arabia Saudita, Emirati
Arabi e Kuwait. Sulla base di questo sostegno, questi governi pretendono
l’applicazione di un “piano economico serio” a partire dal ricettario
neoliberale. Il FMI spinge affinché si taglino i sussidi sui combustibili, l’elettricità
e il grano. Morsi dovette sferrare un attacco neoliberale sulle masse, e il
risultato lo conosciamo. Ora Al-Sisi sarà costretto a fare altrettanto.
Dovrà
scontrarsi con un movimento operaio che ha mantenuto le proprie forze ed è in
ascesa. Da febbraio di quest’anno sono ricominciati gli scioperi. Ci sono state
mobilitazioni a Mahalla, Il Cairo, Alessandria, Suez e altre città. Il processo
rivoluzionario in Egitto resta aperto.
(*) Lit-Quarta Internazionale
(traduzione di Simone Tornese)