La questione palestinese e la guerra civile libanese
In questo trentesimo anniversario dei massacri di Sabra e Shatila, è importante comprendere la politica delle élites libanesi, dalla Nakba¹ fino ai giorni nostri, passando per la guerra civile (1975-1990).
Quest’ultima segnò la storia di quel Paese, intrecciandosi con la questione palestinese. La borghesia locale si servì sempre della presenza dei profughi palestinesi sul territorio nazionale per confondere e dividere la popolazione lavoratrice in lotta per migliori condizioni di vita e, inoltre, per evitare qualsiasi riforma progressista. Questa stessa politica discriminatoria fu utilizzata dalla Siria di Hafez el Assad e da Israele per giustificare il proprio intervento criminale nella guerra civile libanese.
I palestinesi: bersaglio permanente della borghesia libanese
Dopo l’indipendenza, un consorzio di 29 famiglie tradizionali monopolizzò i principali settori economici del Paese. Malgrado fosse un Paese relativamente piccolo, il Libano si affermò nella divisione internazionale del lavoro come un ponte tra l’Occidente e il mondo arabo, in particolare i paesi produttori di petrolio. Banche, commercio, turismo, porti, compagnie aeree -molti dei quali in società con capitali internazionali- divennero i settori chiave dell’economia, a scapito dell’industria e dell’agricoltura che, comunque, conservarono un certo peso economico. Secondo quanto scrive lo storico marxista libanese Fawwaz Traboulsi, nel suo libro A History of Modern Lebanon (La storia del Libano moderno), queste famiglie borghesi erano per la maggior parte cristiane (nove maronite, sette cattoliche greche, una latina, una protestante, quattro ortodosse greche e una armena), ma ce n’erano anche quattro sunnite, una sciita e una drusa. Tale potere economico si traduceva in potere politico: si determinava un’egemonia della borghesia cristiana. Il potere era concentrato nelle mani del presidente, anch’esso un cristiano. In Parlamento vi era una proporzione fissa di sei cristiani ogni cinque musulmani. Questo regime politico, formalizzato nel “patto nazionale” del 1943, fu modificato soltanto dopo la guerra civile, con gli accordi di Taif, nel 1990. La maggior parte della borghesia libanese utilizzò sempre i palestinesi come bersagli permanenti al fine di deviare l’attenzione dai problemi strutturali del Paese e impedire qualsiasi riforma del “patto nazionale”. La maggioranza della popolazione lavoratrice nelle città e nelle campagne appoggiò sempre la causa palestinese.
La discriminazione comincia con la Nakba
Nel 1948 120 mila palestinesi si rifugiarono in Libano. Da subito il governo tentò di espellerli verso la Siria. Di fronte al rifiuto di quest’ultima, li si utilizzò come manodopera a buon mercato per la raccolta degli agrumi in varie zone del Paese. Nel 1965 gruppi di cristiani maroniti avviarono una campagna pubblica per denunciare l’occupazione della Quarantina (quartiere nella zona orientale di Beirut) da parte di abitanti stranieri (palestinesi e siriani). Questo tipo di discriminazione contro i palestinesi sarà uno stimolo permanente dell’agitazione reazionaria borghese. Il 1° marzo 1968, su pressione di Israele e della Siria, l’esercito libanese inizia una serie di attacchi contro le forze dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), i cosiddetti Feddayn. Il 23 aprile 1969 l’esercito apre il fuoco contro le manifestazioni di massa a favore della resistenza palestinese, a Beirut e Saida (Sidone), provocando morti e feriti. Tale offensiva si interrompe con la firma degli accordi del Cairo dell’8 novembre 1969, che sanciscono il diritto dell’Olp a “governare” i campi profughi palestinesi e organizzare la resistenza armata contro Israele. A seguito di un crescente movimento di massa, con scioperi e manifestazioni per le strade di migliaia di lavoratori e studenti, che vedevano l’Olp come una loro alleata, la forza aerea libanese bombarderà il campo profughi di Bourj el-Barajneh, il 3 maggio 1973.
In luglio l’esercito e la Falange (il partito conservatore cristiano) attaccano i palestinesi a Dikwaneh (quartiere nella zona orientale di Beirut, dove si trovava il campo profughi di Tel al-Zaatar). Il 26 febbraio 1975 una manifestazione pacifica di pescatori, a Saida, contro l’impresa Protein, è attaccata dalla polizia. La popolazione si solleva e, con l’appoggio dell’Olp e di gruppi nasseristi e di sinistra, prende il controllo della città e respinge l’esercito e la polizia. Dinanzi a questo pericoloso esempio, la borghesia libanese decide di ricorrere alla guerra civile -soluzione che escogitò per sconfiggere un grande processo di lotte della classe lavoratrice libanese e palestinese, e impedire qualsiasi riforma del regime politico stabilito nel patto nazionale del 1943. Per avviarla niente di meglio che attaccare i palestinesi. Il 13 marzo, accampando il pretesto di voler reagire ad un attacco palestinese, nei pressi di Ayn al Rumaneh i falangisti spararono contro un autobus pieno di palestinesi diretto a Tel al Zaatar, uccidendo 21 persone.
La guerra civile: i palestinesi continuano ad essere il bersaglio
L’Olp era l’unica forza militare che potesse far fronte alle milizie falangiste e alle forze libanesi (gruppi di destra armati da Stati Uniti, Francia e Israele). Per questo la sua espulsione dal Paese era voluta dalla maggior parte della borghesia libanese, dai governi siriano e israeliano, oltre che dagli imperialismi statunitense ed europeo. In un primo momento le forze progressiste, organizzate nel MNL (Movimento Nazionale Libanese), guidato dal druso Kamal Jumblatt, con l’appoggio dell’Olp, di gruppi nasseristi e della sinistra, presero il controllo dell’80% del territorio libanese.
Jumblatt intendeva utilizzare la forza sociale e militare dei palestinesi al fine di negoziare maggiori spazi di potere, per una riforma nel regime politico. L’Olp, cacciata dalla Giordania nel settembre nero del 1970, necessitava di spazio e appoggio in Libano per proseguire la sua lotta contro Israele. Per questo si alleò con Jumblatt nel Mnl e sostenne varie lotte popolari. Per evitare la sconfitta falangista Hafez el Assad, eseguendo un ordine dell’allora segretario di Stato americano Henry Kissinger e del governo libanese, con l’avallo di Israele invase il Libano e attaccò le forze dell’Olp e del Mnl. Alla vigilia dell’invasione, il 12 aprile 1976, Assad criticò violentemente il Movimento Nazionale Libanese e l’Olp, descrivendo i suoi leader come “criminali che acquistano e vendono politica e rivoluzione”, e dichiarò la sua intenzione di intervenire nel Paese vicino per “difendere ogni oppresso contro ogni oppressore”, come se i palestinesi fossero gli oppressori e i falangisti gli oppressi. L’intervento siriano riuscì ad impedire l’avanzata del Mnl e capovolse i rapporti di forza a vantaggio dei falangisti. Questi, guidati da Bashir Gemayel, cercavano di imporre un governo dittatoriale, favorevole ad Israele e al cosiddetto Occidente. Bashir sosteneva che i palestinesi fossero un popolo “di troppo” e voleva la loro cacciata dal Libano. Perciò trattava con Israele, che gli garantiva armi e l’invio di truppe, come accadde nel 1982. A quel tempo anche l’Iraq di Saddam Hussein inviava armi a Bashir. Il 23 agosto di quell’anno l’Olp fu cacciata dal Libano, mentre il governo locale dava il benvenuto alle truppe israeliane.
Senza l’Olp era più semplice espellere i palestinesi. Tra il 16 e il 18 settembre, appoggiate dall’esercito di Israele, le forze di destra libanesi ammazzarono circa tremila palestinesi e libanesi nei campi profughi di Sabra e Shatila, nella zona occidentale di Beirut. Tale massacro provocò una forte indignazione nell’opinione pubblica nazionale e internazionale e un sollevamento contro l’occupazione israeliana in Libano, il che sovvertì i rapporti di forza, questa volta a discapito di Israele e dei suoi alleati falangisti.
All’indomani della cacciata dell’OLP anche Amal, gruppo che rappresentava la borghesia sciita, attaccò i palestinesi su ordine di Damasco, facendo gli interessi della borghesia libanese. Lo fece dando inizio alla “guerra dei campi”, nella quale le sue milizie attaccarono le forze palestinesi nei campi profughi con l’obiettivo di prenderne il controllo, a dispetto degli Accordi del Cairo.
I vincitori continuano con la discriminazione
Gli accordi di Taif sancirono la fine della guerra civile. I numeri sono drammatici: circa 70 mila morirono, 90 furono feriti, più di 800 mila furono cacciati dalle loro terre (670 mila cristiani e 157 mila musulmani, principalmente sciiti) e 900 mila fuggirono all’estero. La sconfitta dei falangisti e di Israele comportò un cambiamento nel regime politico. Il potere centrale passò al primo ministro, che era sunnita, e in Parlamento si ebbe una proporzione fissa di cinque cristiani ogni cinque musulmani. Inoltre la Siria divenne la “garante” del Paese, fino ad esserne espulsa nel 2005. Ma per i palestinesi nulla cambiò: vi sono leggi che impediscono loro di esercitare varie professioni e non hanno diritti di cittadinanza, il che li spinge verso una marginalizzazione economica, sociale e politica.
La questione palestinese: chiave per la liberazione delle masse arabe
La formazione dello Stato di Israele, in seguito all’alleanza storica tra il sionismo e l’imperialismo, al fine di colonizzare tutto il mondo arabo, divenne un simbolo concreto e molto ben armato della dominazione della regione. La politica dei governi arabi consiste nell’uniformarsi all’ordine colonialista mondiale, in particolare agli Stati Uniti e ad Israele. Si schierano in difesa dei palestinesi soltanto per negoziare e ingannare i loro popoli. D’altra parte, i palestinesi godono dell’appoggio della popolazione lavoratrice nell’intero mondo arabo. Queste forze sociali, lavoratori, contadini, gioventù emarginata, sono quelle che dispongono delle condizioni storiche per liberare tutto il mondo arabo dall’oppressione coloniale e sociale. Con la solidarietà dei loro compagni e compagne, lavoratori e lavoratrici, in tutto il mondo, sarà possibile conquistare un mondo arabo libero e socialista.
Note
1. Nakba è un termine arabo che significa “catastrofe” o “disastro”, utilizzato per indicare l’esodo palestinese. Il 14 maggio 1948 David Ben-Gurión, leader sionista, proclama la creazione dello Stato di Israele. La proclamazione unilaterale dello Stato di Israele provocherà un conflitto armato che sarà conosciuto dal mondo arabo con il nome di al-Nakba. Nel gennaio 1949 i sionisti occupavano il 78% del territorio. Come risultato più di 750 mila profughi dovettero abbandonare le proprie case fuggendo verso le frontiere di Gaza e della Cisgiordania, e in altri paesi come Giordania, Siria o Libano.
(traduzione dallo spagnolo di Simone Tornese)