
In questo senso, la “sorpresa” nel recupero elettorale di Berlusconi rispetto ai sondaggi sta solo nella sua entità, poiché si percepiva chiaramente che era in rimonta su Bersani. Certo, il prezzo pagato dal Pdl è stato altissimo: in cinque anni, lo hanno lasciato 6.300.000 elettori, pari a quasi il 50% del bacino del 2008. Tuttavia, ha dato fino all’ultimo l’impressione di potercela fare (lo scarto finale con la coalizione di Bersani è stato di soli 124.000 voti) e solo un’emorragia di consensi per il Pd più contenuta è riuscita a contrastare, sia pure di poco, il possibile sorpasso.
Un’altra conferma riguarda la Lega Nord, uscita molto ridimensionata dalle urne a causa degli scandali familistico-finanziari che l’hanno coinvolta. Il partito di Maroni ha perso oltre la metà dei consensi ottenuti alle scorse politiche (- 54%, cioè oltre 1.630.000 voti in meno), registrando un forte arretramento non solo nel Nord Est (- 61%), ma anche in importanti regioni del Nord Ovest (Piemonte: - 63.4%; Liguria: - 68%) e perdendo notevole parte dell’insediamento ottenuto dalla penetrazione nelle cosiddette “regioni rosse”.
Il risultato elettorale del Pd è stato una “quasi sorpresa” solo nel senso che tutti i sondaggi davano la vittoria in tasca alla coalizione Bersani-Vendola, che dalla sua aveva anche il gradimento delle cancellerie europee in ragione della più volte dichiarata intenzione di stringere, per dopo il voto, un accordo di governo con la lista Monti. Anche il Pd ha subito un salasso elettorale, passando dai 12 milioni di voti del 2008 agli 8.644.000 d’oggi (- 28.4%).
Ma se tutti gli analisti borghesi sono rimasti sorpresi dalla vittoria di misura della coalizione di centrosinistra rispetto alle previsioni, noi abbiamo invece ricevuto una conferma di come l’appoggio entusiasta e fedele al governo Monti non poteva affatto premiare il leader del Pd (come non ha premiato lo stesso Monti e le liste a lui legate nella competizione, in particolare l’Udc che, cannibalizzata dal premier uscente, è passata dai 2.050.000 voti del 2008 ai 608.000 d’oggi). L’aver rivendicato per tutta la campagna elettorale di essere stato lo zelante sostenitore di un governo così inviso al Paese, e l’aver reiteratamente espresso la volontà di ripeterne l’esperienza con qualche pennellata d’equità, ha inscritto Bersani e i suoi accoliti nel Pantheon delle politiche d’austerità e dei tagli di bilancio.
Nel primo caso, Vendola è rimasto vittima della sua volontà di competere sul terreno del centrosinistra come ala sinistra della coalizione a guida Bersani: pur di rientrare in parlamento con la sua scalpitante microburocrazia, il governatore della Puglia ha stretto un’alleanza penalizzante col Pd partecipando persino alle sue primarie al solo scopo di contenere Renzi. La sua immagine si è quindi totalmente appannata al punto da scomparire dalla scena: l’esito in termini di voti rappresenta il triste approdo di un partito puramente mediatico basato pressoché soltanto sull’ingombrante figura del suo leader.
Il fallimento dell’esperienza elettorale di Rivoluzione civile è quello del suo principale azionista, Rifondazione comunista. La lista con a capo Ingroia è stata vista dal Prc (e dagli altri partiti: l’IdV di Di Pietro, il Pdci di Diliberto e i Verdi di Bonelli) come l’ultimo tram su cui salire nella speranza che il capolinea fosse il parlamento. Per un partito come Rifondazione, da sempre vissuto delle briciole (e che briciole!) economiche del parlamentarismo, si tratta di una sconfitta epocale. Dinanzi agli occhi dei suoi dirigenti si staglia ora lo spettro della bancarotta finanziaria, oltre quella politica: i cinque anni vissuti fuori delle istituzioni dal 2008 sono stati affrontati svendendo i gioielli di famiglia, cioè quel tesoretto mobiliare e immobiliare accumulato negli anni delle prebende parlamentari; ma altri cinque anni così sarebbero ingestibili.
Le dimissioni annunciate dell’intera segreteria, però, lungi dal rappresentare la volontà di un serio bilancio di tutto il corso della vita del Prc (e non solo della fallimentare esperienza della lista Ingroia), paiono costituire solo un passaggio obbligato per riproporre attraverso il lavacro congressuale il disastroso iter già percorso: basti pensare che la risoluzione con cui sono rassegnate le dimissioni contiene la proposta di rilanciare, attraverso “un vero e proprio processo costituente, democratico e partecipato”, proprio quella Rivoluzione civile che ha costituito la pietra tombale della stessa Rifondazione (1)!
Si apre un periodo denso d’incognite per Rifondazione, in cui si profilano sullo sfondo rese dei conti, fuggi-fuggi generalizzati, tentativi di dissociare le proprie responsabilità da quelle dei gruppi dirigenti (2). Ma è evidente che il quadro in cui si dipanerà questa vicenda rimanda alla spaventosa crisi in cui versa il riformismo, che, nell’epoca della crisi capitalistica, vede i propri margini di manovra ridotti al lumicino: e la crisi in cui – con le differenze del caso – Sel e Rifondazione si dibattono è, appunto, l’emblema di un riformismo senza via d’uscita.
Infatti, la “sorpresa” per questa vittoria, che manda a carte quarantotto ogni ipotesi che le segreterie dei partiti borghesi avevano messo in campo, la manifesta solo chi non aveva voluto guardare in faccia una realtà fatta di un esercito di disoccupati, precari, esodati, piccolissima borghesia proletarizzata, famiglie strangolate dai mutui e pensionati che vivono ben oltre la soglia di povertà: insomma, una classe subalterna composita che cercava un’alternativa alle politiche d’austerità e tagli allo stato sociale e l’ha trovata in una proposta politica interclassista che costituisce una mistura di liberismo, feticismo tecnologico, odio verso la “casta”, meritocrazia, temi sociali (No-Tav, No-F35, acqua pubblica, ecc.), rifiuto delle politiche monetariste declinate in chiave nazionalista. A questi soggetti, stanchi di una politica di Palazzo sempre più lontana dai loro bisogni, si è rivolta una forza che è apparsa ai più come “anti-sistema”, pur senza realmente esserlo.
Su questi aspetti torneremo in un più particolareggiato articolo che sarà pubblicato nei prossimi giorni nella nostra news e sul sito. In questa sede ci interessa invece esaminare quanto la presenza dei nuovi 162 fra deputati e senatori del M5S scompagini i piani della borghesia.
È indubbio, infatti, che il risultato del partito di Grillo abbia precipitato i partiti borghesi di centrodestra e di centrosinistra in una crisi politico-istituzionale che non ha precedenti e non ha una soluzione semplice. I margini di manovra per uscire dalla situazione di stallo in cui essi versano sembrano estremamente ridotti: al momento, nessuna delle coalizioni ha in parlamento i numeri per governare e appaiono ostaggio dei grillini. La minaccia che tante volte Grillo aveva ripetuto – “Ci vedremo in parlamento, sarà un piacere!” – e che tutti avevano preso come una smargiassata appare invece oggi come una pistola puntata alla tempia dei partiti della borghesia: l’ipotesi di un governo Pd-Pdl (oppure la riedizione di un governo Monti), pur godendo di una solida maggioranza numerica, sarebbe minoranza politica nel Paese e aprirebbe al M5S un’autostrada per rovesciarla nella competizione elettorale a venire (che, crediamo, sarà abbastanza prossima nel tempo); l’ipotesi di un governo di minoranza, che dovrebbe contrattare di volta in volta i voti in parlamento o di Grillo o di Berlusconi, sarebbe debolissima e darebbe luogo ad un esecutivo ostaggio delle altre forze politiche, né sarebbe ben visto dalle cancellerie europee che di tutt’altro governo hanno bisogno perché continuino a passare in Italia le loro politiche antioperaie e antipopolari per scaricare gli effetti della crisi sui lavoratori.
Il loro timore è che, protraendosi questa situazione di stallo, l’aggravarsi della crisi spinga settori d’avanguardia sempre più ampi su una strada che non è quella elettorale, ma quella delle piazze. Non a caso, proprio mentre scriviamo, la stampa riferisce della relazione che i servizi segreti hanno appena inviato al parlamento, in cui si evidenzia il timore di un “innalzamento delle tensioni sociali”, la paura che un “incremento delle difficoltà occupazionali e delle situazioni di crisi aziendale potrebbe minare progressivamente la fiducia dei lavoratori nelle rappresentanze sindacali, alimentare la spontaneità rivendicativa ed innalzare la tensione sociale, offrendo nuove opportunità ai gruppi dell’antagonismo per intercettare il dissenso e incanalarlo verso ambiti d’elevata conflittualità”.
La borghesia è, perciò, cosciente del pericolo che sta correndo, cioè che il conflitto si sposti dai tavoli negoziali e dalle urne elettorali (in cui essa sempre sarà in qualche modo vittoriosa) alle piazze, in cui l’unificazione e lo sviluppo delle lotte possono aprire la strada a nuovi rapporti di forza tra le classi per il rovesciamento di questo sistema di sfruttamento, fame e miseria che è il capitalismo.
Elemento fondamentale per questo passaggio non potrà che essere la costruzione, nel vivo di quelle lotte, di un partito e di un’Internazionale realmente rivoluzionari: è il compito cui il Pdac e la Lit-Quarta Internazionale stanno dedicando tutti i loro sforzi.
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(1) Http: //www2.rifondazione.it/primapagina/?p=1290.
(2) Si pensi all’opportunista corrente interna Falcemartello che, dopo avere per qualche tempo anche sostenuto la maggioranza di Ferrero, si è limitata a svolgere all’interno del partito un’Opposizione di Sua Maestà, giungendo fino a fare un appello al voto per la lista Ingroia (“Non ci sottraiamo, per il rapporto di lealtà che ci lega alla militanza del partito, dal condividere anche questa battaglia… Ci sommiamo al voto per la lista Ingroia”: