
Le ragioni di queste prese di posizione, che chiudono ogni possibilità di modifica nelle politiche di austerità fino a oggi seguite, si fondano, per chi le esprime, sostanzialmente su due elementi: una crescita economica molto più debole rispetto a quella dei Paesi più sviluppati, e l’enorme debito pubblico (oltre 130% del Pil) che grava sulle finanze statali. Specialmente per quanto riguarda il rapporto debito-Pil, la vulgata comune è che la popolazione italiana abbia per molto tempo vissuto "al di sopra delle proprie possibilità": quindi ora sarebbe giunto il tempo di fare i conti con la realtà e decidersi a fare i necessari sacrifici, anche se dolorosi.
Siamo sicuri che le cose stiano realmente così? Noi non crediamo e ci sforzeremo, nel breve spazio di questo articolo, di dimostrarlo. Sono quattro le voci che analizzeremo a supporto della nostra tesi.
Il terzo settore riguarda l’istruzione pubblica.
Per ultimo, il tema che negli ultimi venti anni ha per certi versi monopolizzato il dibattito politico e sindacale in Italia: quello riguardante le pensioni.
Negli anni poi ci furono varie ulteriori contro-riforme del sistema pensionistico, fino ad arrivare alla famigerata legge Fornero. Anche in quel caso la scusa fu quella di salvare il Paese dal crack finanziario. In realtà vennero salvati gli interessi della grande borghesia mentre operai e impiegati videro aumentare dalla sera alla mattina, letteralmente, l’età per poter andare in pensione.
La risposta delle burocrazie a questo brutale attacco la ricordiamo tutti: tre ore di sciopero generale e niente più. Nonostante tutto questo, nonostante la risposta operaia non sia stata per nulla paragonabile a quella di venticinque anni fa, né minimamente adeguata alla posta in gioco, è sul tema delle pensioni che il sindacato, o meglio i suoi gruppi dirigenti, si confrontano con la sfiducia e la rabbia operaia. Tutti riconoscono che a sette anni dalla riforma Fornero-Monti, in ogni assemblea sui posti di lavoro, i funzionari di Cgil, Cisl e Uil si devono scontrare con la rabbia di chi si è sentito tradito dagli stessi soggetti verso cui aveva riposto speranze. E questo nonostante anni di martellante campagna sul già citato, fantomatico "scontro generazionale".
Fatta questa non breve, ma crediamo necessaria, premessa, cerchiamo di capire quale sia realmente lo stato del sistema pensionistico nazionale.
Già oggi l’età in cui può accedere alla pensione un lavoratore italiano è la più alta di tutta l’Unione europea.
La percentuale di spesa per le pensioni (circa il 15% del Pil, maggiore che in altri Paesi) si riduce, secondo uno studio fatto da un esperto della materia, Massimo Brambilla, a circa il 12 se si tolgono le voci relative all’assistenza, che dovrebbero essere a carico della fiscalità generale. In proposito non sono assolutamente fondate le posizioni di chi, come Giuliano Cazzola (ex dirigente sindacale di area craxiana, poi passato al berlusconismo più combattivo, approdato successivamente sulle sponde del montismo, fino a trovare oggi un porto sicuro nell’area di Renzi) sostiene che queste somme sono comunque versate all’Inps ogni anno dallo Stato. Se la separazione tra previdenza e assistenza fosse attuata, sarebbe molto più difficile per governo e padroni affermare che le pensioni dei lavoratori non sono finanziariamente sostenibili senza una serie infinita di tagli. Così come sarebbe molto più complicato nel caso i circa 100 miliardi di euro di trasferimenti apparissero come fabbisogno statale giustificare i continui sgravi fiscali di cui, in vari modi, beneficiano grandi gruppi industriali, banche e assicurazioni.
Tutto quello che fino ad ora abbiamo ricordato si traduce in un dato incontestabile, fornito direttamente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef). Secondo il dicastero di via XX Settembre, l’Italia dal 1995 al 2014 ha avuto un avanzo primario di bilancio (cioè la differenza tra entrate e uscite prima del pagamento degli interessi del debito pubblico) per 19 su 20. Nessuno dei maggiori Paesi d’Europa (Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna) ha mai raggiunto simili livelli di “disciplina fiscale”.
Questo dimostra, lo ripetiamo, che la grave situazione in cui si trova la finanza pubblica tricolore non è assolutamente dovuta a un eccesso di generosità a favore di lavoratori, studenti, pensionati.
Allora, come mai il debito pubblico aumenta di continuo, non solo in termini relativi (rispetto al Pil) ma anche assoluti?.
Nel primo caso la vulgata comune vuole che i soldi dati alle banche siano stati dati non per salvare i grandi azionisti, ma lavoratori e piccoli risparmiatori. Niente di più falso. I risparmiatori, lavoratori che avevano messo da parte piccole somme dopo una vita di lavoro, hanno visto nella quasi totalità dei casi azzerati i loro risparmi. Per quanto riguarda i lavoratori delle banche, ricordiamo solo la riduzione di posti di lavoro nel settore (circa 50.000 nello scorso decennio e altri 20.000 o forse più nel giro di pochi anni) e i tagli di salario che hanno dovuto subire.
Nel secondo caso, i governi dal 2011 hanno utilizzato alcuni strumenti finanziari (derivati) per prevenire gli effetti negativi sul debito negli anni più duri delle crisi. Ciò che però non dicono è che, a quanto risulta, altri Paesi europei avevano usato strumenti simili, e nessuno ha dovuto registrare perdite di tali dimensioni, anzi in alcuni casi si sono registrati minimi guadagni. Dirigenti del ministero, poi diventati ministri, come nel caso di Grilli e Siniscalco, sono ora alti papaveri di banche che hanno guadagnato enormi somme di denaro dall’aver sottoscritto questi contratti con il Tesoro. La stessa magistratura borghese li ha messi sotto inchiesta, quantificando un danno per lo Stato di oltre 4 miliardi. Di fronte a questi fatti incontrovertibili, il governo come ha reagito? Ha fatto appello al segreto di Stato, anche nei confronti del Parlamento, rifiutandosi di rendere pubbliche le clausole sottoscritte con le banche, e nonostante le gravissime accuse a suo carico, ha mantenuto al posto di responsabile del Dipartimento del Debito Pubblico, Maria Cannata. Rispetto a questo caso viene da sorridere pensando a quale trattamento verrebbe assoggettato qualsiasi operaio o impiegato semplicemente sospettato di aver rubato una biro o una risma di carta. E qui parliamo di miliardi di euro di proprietà dei lavoratori. Ma perché stupirsi? Un mandante non denuncia mai l’esecutore materiale di un crimine, anche se presunto.
Abbiamo inoltre la prova, ulteriore, di quanto la democrazia borghese sia un inganno di cui beneficiano banche e grandi gruppi borghesi. In nome di un inesistente "interesse nazionale" (basti pensare che sono coperti da segreto di Stato anche i contratti che regolano le concessioni autostradali), il governo si rifiuta di rispondere delle sue azioni davanti al Parlamento che, secondo i cantori della democrazia al di sopra delle classi, dovrebbe essere il solo garante della sovranità. E i parlamentari, di ogni schieramento, abbozzano.
È più che mai ovvio quindi che questo Stato non è uno strumento neutro, che regola il vivere civile di una nazione, ma il comitato di affari della borghesia, per i cui interessi agisce a scapito della maggioranza della popolazione, composta da lavoratori e sfruttati in genere.
E' per questo che lo Stato non può essere riformato ma può e deve essere rovesciato. I segreti che lor signori difendono noi li respingiamo in quanto coprono truffe, inganni, ruberie ai danni di milioni di proletari. I nostri soldi, la sanità, l’istruzione, le pensioni, sono finiti nei forzieri di banche e assicurazioni. Solo con una lotta rivoluzionaria vittoriosa ci riapproprieremo una volta per tutte del maltolto, e solo così creeremo uno Stato nuovo, uno Stato dei lavoratori per i lavoratori, che non avrà segreti di sorta da opporre al 99% che oggi continua a essere vessato fino all’ultima goccia di sangue.
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