Gli ostacoli da infrangere

Vicino all'Europa (vicinissimo) la rivoluzione nei Paesi arabi, che in pochi mesi ha sconvolto tutta l'area, continua a crescere e ad estendersi, pur dovendo affrontare grandi ostacoli: l'assenza di direzioni coerentemente rivoluzionarie, cioè basate sul programma della rivoluzione permanente, capaci di rovesciare i governi borghesi; il conseguente persistere di governi provvisori subalterni all'imperialismo che hanno rimpiazzato i dittatori crollati; l'ostilità di ampi settori della sinistra internazionale, specie di quella orientata dalle posizioni castro-chaviste
(schierata con i vari Gheddafi e Assad contro le masse popolari).
In Europa, pur con ritmi differenti, lo scontro tra i governi della borghesia (nelle loro diverse varianti, di centrodestra e centrosinistra) e il proletariato cresce a ritmi rapidissimi. Dopo Grecia e Francia, che hanno aperto la via, Spagna, Portogallo e quest'estate anche Gran Bretagna: basta elencare i nomi per richiamare alla mente mobilitazioni di massa della classe operaia e degli altri strati oppressi della società, con dimensioni che non si vedevano da decenni. Non si vedeva da decenni una crescita simultanea della lotta in diversi Paesi europei ed è del tutto inedita la combinazione tra questa crescita e lo sviluppo in terre vicine di vere e proprie rivoluzioni. Se a questo si aggiunge che i Paesi in cui sono in corso le rivoluzioni hanno una importanza decisiva per le economie occidentali; che gli Stati in cui la lotta di classe si sviluppa sono in quell'Europa dove più forte è rimasta, nonostante tutte le sconfitte, la forza organizzata del movimento operaio; che tutto ciò si intreccia con una delle crisi economiche più devastanti dell'economia capitalistica: se si considera l'effetto del combinarsi di tutti questi elementi si ha un'idea delle potenzialità rivoluzionarie dei mesi straordinari che stiamo vivendo e di quelli, ancora più straordinari che abbiamo davanti.
La crisi sta toccando punte da record: se ai 2 milioni di disoccupati ufficiali si aggiungono gli "inattivi" si arriva a 15 (quindici) milioni, pari al 38% della popolazione in età lavorativa che è tenuta fuori dal lavoro. E quanto alla disponibilità alla lotta, dall'inizio della crisi (2007) i lavoratori e i giovani l'hanno dimostrata più volte, rispondendo in massa a ogni chiamata in piazza, per quanto fatta dalle direzioni sindacali in modo tardivo, su parole d'ordine risibili e sempre in modo di dividere e segmentare invece che unire i lavoratori e le loro lotte.
La realtà è che ciò che pone l'Italia, per il momento, in coda alle mobilitazioni europee è, paradossalmente, il grado di sindacalizzazione tra i più alti, cioè l'influenza enorme che le grandi organizzazioni sindacali esercitano sui lavoratori e che utilizzano per deviare, trattenere, soffocare la crescita delle lotte. La foto di gruppo di quest'estate con la Marcegaglia e i leader di Cisl, Uil e Cgil che appoggiano la mano sulla sua, come i moschettieri con D'Artagnan (tutti per uno), e poi delegano la rappresentante dei padroni a parlare per conto delle cosiddette "parti sociali" (uno per tutti), a nome di un presunto interesse comune di padroni e operai, è la più rapida e perfetta sintesi della situazione attuale.
In questa concertazione con governo e padronato, la Cgil svolge una parte diversa da quello di Cisl e Uil. Se queste ultime sono ormai di fatto dei sindacati gialli, para-governativi, la direzione Cgil agisce invece per conto del Pd, a sua volta agente di ampi settori del capitalismo italiano che si preparano all'imminente alternanza, cioè alla sostituzione dello schieramento di governo borghese di centrodestra con lo schieramento borghese di centrosinistra. E l'alternanza deve avvenire, per non guastare il meccanismo, attraverso il ricambio elettorale, non certo con la piazza. La piazza va quindi "scaldata" soltanto quanto basta per facilitare la prossima vittoria elettorale o comunque (come auspicano alcuni settori borghesi) per facilitare una rapida fuoriuscita di Berlusconi (oggi è la Marcegaglia a chiedere a Berlusconi di fare "un passo indietro"), per un governo "di emergenza" che infine porti alle elezioni con conseguente ricambio. In tutte le varianti plausibili (governo tecnico che porti alle elezioni o elezioni che formino direttamente il nuovo governo) lo sbocco non cambia: la costituzione di un governo borghese più solido, meno intaccato da scandali e corruzione (per quanto ciò sia possibile a un governo borghese, corrotto per definizione).
Dei sindacati maggiori abbiamo già detto. La lista prosegue con la Fiom, di fatto il principale sindacato operaio. La riuscita operazione politica organizzata da Bertinotti e Vendola (iniziata con la scissione del Prc nel 2009) ha guadagnato la maggioranza dell'attuale direzione della Fiom (Landini) a forza partecipe di un progetto di costruzione di una sinistra socialdemocratica (una socialdemocrazia di destra, fortemente moderata non solo nei programmi ma anche nella simbologia) interna al centrosinistra che compartecipi con i liberali del Pd alla direzione della coalizione che si candida a governare per conto degli industriali e dei banchieri. Questo progetto politico, al contempo alleato e concorrente del Pd bersaniano, sta guadagnando rapidamente uno spazio con il crescere della crisi. Si tratta di fatto di una riproposizione dell'identico progetto che Bertinotti tentò col Prc e con l'uso (del tutto ingannevole) dei simboli del comunismo (dismessi senza esitazioni in seguito al fallimento dell'operazione). Cioè la costruzione di un "partito del lavoro", con solide gambe sindacali (la Fiom), con rapporti nei movimenti, nei centri sociali (vedi la relazione che Sel sta ritessendo con i "disobbedienti" casariniani, coi centri sociali pro-Pisapia e pro-De Magistris a Milano e Napoli, ecc.). Un polo politico-sindacale socialdemocratico che ambisce ad occupare, almeno in parte, il posto da anni lasciato vuoto dalla scomparsa-riconversione liberale del Pci. Sel è concepita da una buona parte del suo gruppo dirigente appunto come uno strumento transitorio per favorire questo progetto.
La stessa Fed, che doveva servire a formare un bacino di navigazione al Prc, non è di fatto mai nata. Il minuscolo Pdci di Diliberto, un pochino rimpinguato dall'arrivo dell'ultima scissione del Prc (l'Ernesto di Sorini), celebrerà a breve un congresso tutto puntato sulla simbologia "comunista" (con tanto di richiami... alla rivoluzione d'Ottobre), che (secondo la nota scuola togliattiana) serve a velare la massima disponibilità (esplicitata sulla stampa borghese) a fungere da sgabello al prossimo governo di centrosinistra. Al contempo, gli altri due micro-soggetti rimasti nella Fed (il gruppo di Patta, Socialismo 2000, e quello di Salvi, Lavoro e Solidarietà, entrambi già ministri e sottosegretari nei governi Prodi) hanno annunciato la nascita dell'ennesima associazione, stavolta per favorire la formazione di un "partito del lavoro". A fare da guardia al bidone vuoto della Fed restano, in teoria, le due anime della maggioranza: i seguaci di Ferrero e di Grassi (il primo già ministro della Solidarietà nel governo imperialista di Prodi e il secondo responsabile organizzativo del Prc, da sempre capofila dell'ala più esplicitamente governista di quel partito). Per il momento le due anime, pur tra reciproche pugnalate, si tengono a galla a vicenda. Anche se tra funzionari messi in cassintegrazione e sedi in vendita, alcuni dirigenti stanno già con la valigia pronta in cerca di qualche approdo più sicuro per la propria carriera.
Per tempo (subito dopo la cosiddetta "svolta a sinistra") avevamo analizzato le reali intenzioni del nuovo gruppo dirigente del Prc rimasto orfano di Bertinotti: la ricerca spasmodica di un qualsivoglia ruolo (fosse pure quello del mozzo) nella ben più solida nave del centrosinistra. Le patetiche "videolettere" di Ferrero che chiede a Vendola di degnarlo di una risposta; i patetici (anche se un po' più sobri) articoli di Grassi che invocano una "unità nelle diversità" con la sorellastra maggiore (Sel), tutto ciò che la direzione di Rifondazione fa ha come unico scopo quello di ritrovare uno spazio di sopravvivenza per la burocrazia dirigente. Sul manifesto del 18 settembre non poteva essere più esplicito: una vera e propria implorazione a Pd-Sel-Idv perché non si dimentichino che esiste anche il Prc. Noi siamo pronti, ribadisce da tempo Ferrero: ma, si chiede con legittimo timore, gli altri ci vogliono ancora? Sembra il "mi ami? ma quanto mi ami?" di una pubblicità di telefoni.
Chiaramente il Prc, assicura il suo segretario, non rinuncia al suo programma e alla sua identità ma certo non li pone come "pregiudiziali" al confronto per "battere le destre". Il ritornello è quello risaputo che ha preceduto entrambe le esperienze di governo con Prodi (senza ministri la prima, con ministri la seconda). Peraltro lo stesso programma del Prc è talmente vago che anche laddove fosse posto come "pregiudiziale", e laddove qualcuno degli interlocutori se ne accorgesse e si degnasse di leggerlo, non si vede che fastidio potrebbe dare. Qualche inessenziale "modifica al trattato di Maastricht", un "controllo" del... parlamento europeo sulla Bce, un "fisco comune europeo", la solita "tassazione comunitaria sulle transazioni speculative", il tutto nel quadro di una "comune politica economica dell'Europa" (leggi: dell'imperialismo) finalizzata alla "piena occupazione" (come no!), senza dimenticare una aggiustatina alle regole della borsa per concludere con "il dimezzamento delle spese militari" (cioè invece di cento nuovi cacciabombardieri per le missioni coloniali dell'imperialismo italiano, solo cinquanta).
Significativo, in questo senso, l'atteggiamento del gruppo dirigente di Usb. Dopo aver da sempre rifiutato di scioperare quando lo fa la Cgil o altri sindacati (anzi: l'averlo fatto è stata causa di espulsione per Fabiana Stefanoni, portavoce di Unire le lotte, la minoranza interna), i vertici Usb hanno positivamente deciso di scioperare il 6 settembre (giorno dello sciopero generale della Cgil). Ma, tanto per confermare che si trattava solo di una scelta obbligata non corrispondente a un ripensamento di fondo dell'impostazione, le manifestazioni di Usb si sono svolte in (piccole) piazze rigidamente separate da quelle in cui manifestava la massa dei lavoratori degli altri sindacati, lasciati così ad ascoltare le messe cantate dei burocrati Cgil. Il tutto si combina con l'assenza di una piattaforma rivendicativa di classe e con il ricorso ad azioni mediatiche sotto i palazzi con il solo scopo di guadagnare un titoletto sui giornali, surrogato della costruzione di un radicamento del sindacato tra i lavoratori che può essere conquistato solo in una battaglia di egemonia contro le direzioni di Cgil e Fiom: obiettivo questo che è purtroppo precluso ad Usb non certo dagli attivisti (in gran parte animati da reale spirito di lotta e combattività) ma dal ristretto gruppo dirigente che è di fatto sequestrato (cosa spesso ignota a tanti attivisti) dalla invisibile setta stalinista della Rete dei Comunisti. E' quest'ultima ad imporre, con una conduzione a gestione familiare, le linee disastrose escogitate da fini strateghi, figure di second'ordine come i vari Pierpaolo Leonardi, Massimo Betti, Emidia Papi: tutti per mesi impegnati maggiormente nel conflitto contro la minoranza interna, Unire le lotte, piuttosto che nella battaglia per radicare nei luoghi di lavoro il sindacato.
In questa che, a prescindere dalla volontà di tanti militanti, rischia appunto di essere la coda della coda dell'alternanza, troviamo vari altri soggetti. Un tentativo di raggrupparli è quello nato attorno all'appello "Dobbiamo fermarli", animato principalmente da Giorgio Cremaschi (presidente della Fiom), da alcuni settori della Fiom e della sinistra Cgil, da Usb, Sinistra Critica, Falcemartello, Pcl, Rete dei Comunisti, ecc.
Questa è una delle due "piattaforme" che circolano in questi giorni a sinistra. L'altra è quella promossa da Casarini (ex disobbedienti, Centri sociali del Nord Est) e Rinaldini (minoranza Cgil).
Entrambe le piattaforme sono al più definibili come neo-keynesiane. Cremaschi e gli altri avanzano "cinque proposte discriminanti", tra cui: "rimessa in discussione di Maastricht"; "rigorosi vincoli pubblici alle multinazionali"; "una nuova politica estera" che "favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale"; "intervento pubblico per le aziende in crisi"; "beni comuni per un nuovo modello di sviluppo".
Come simili misure (se mai dovessero essere sostenute un giorno da un movimento di massa) possano contrastare la crisi del capitalismo ed evitare che a pagarla siano i lavoratori è un mistero. Davvero qualcuno può pensare seriamente, di fronte alla più grave crisi economica del capitalismo degli ultimi ottanta anni, mentre gli Stati borghesi regalano alle grandi imprese e alle banche, pubblicamente o segretamente, aiuti pari quasi al Prodotto Interno Lordo mondiale, che il problema sia imporre "rigorosi vincoli pubblici alle multinazionali" e un "intervento pubblico" per le aziende in crisi al posto dell'esproprio delle grandi aziende e delle banche sotto controllo dei lavoratori? E chi dovrebbe sviluppare questa "nuova politica estera democratica" di cui si parla? Forse un nuovo governo di centrosinistra, strumento come i precedenti dei bisogni di guerra dell'imperialismo italiano? Davvero, a fronte di una crisi che rivela non tanto le ingiustizie di un modello di capitalismo (quello "neoliberista") ma piuttosto il marciume inseparabile dal capitalismo in tutte le sue varianti, si può parlare di "beni comuni per un nuovo modello di sviluppo"?
"Beni comuni" o socializzazione dei grandi mezzi di produzione? Si tratta di due vie opposte. Difatti la seconda può essere aperta solo da un percorso rivoluzionario che dia il potere ai lavoratori mentre la prima (quella cremaschiana) per sua ammissione ambisce soltanto a "una rivoluzione per la democrazia", dove la "democrazia" di cui si parla è quella dei banchieri e degli industriali, rigorosamente basata sui "diritti garantiti dalla Costituzione" (tra i quali spicca appunto l'inviolabile diritto della proprietà privata).
Una lieve essenza di keynesismo profuma anche la piattaforma di Casarini e Rinaldini, con consueto contorno di "beni comuni" e altre formule prive di senso. Qui però, se non altro, l'obiettivo politico è esplicitato: "vere" primarie sul programma. Cioè a dire, un percorso demagogico attraverso il quale legare nuovamente al carrozzone del centrosinistra le organizzazioni del movimento operaio e i movimenti di lotta, illudendo che si tratti solo di scegliere in un presunto confronto "alla pari" tra "cittadini" (padroni e operai) i punti programmatici del futuro governo. Fingendo di dimenticare che alla guida dello schieramento e alla base dell'eventuale governo ci saranno le forze sociali che hanno guidato i precedenti governi Prodi I e Prodi II nonché le giunte di ieri e di oggi del centrosinistra (si pensi a quella di Pisapia a Milano): la grande borghesia italiana, la classe dominante che è tale perché sfrutta i lavoratori ed è retta da interessi inconciliabili con quelli del proletariato.
Nessuna di queste piattaforme pone in questione lo sfruttamento capitalistico, il sistema salariale, la società divisa in classi, l'Europa imperialista. L'obiettivo è solo quello di correggere le "storture" del capitalismo applicando irrealisticamente alcune delle misure individuate da Keynes (che, quando furono applicate in qualche misura, peraltro in epoche ben diverse dall'attuale, servirono solo a salvare il capitalismo). Nessuno di questi programmi pone l'esigenza di far crescere le lotte in direzione del potere dei lavoratori, di un'Europa socialista. Ecco perché nessuna di queste piattaforme serve ai lavoratori.
A cosa servono allora? Solo a favorire piccole dinamiche volte all'inserimento nel prossimo governo o nei suoi dintorni di tutta una serie di personaggi, gruppi, organizzazioni. O anche (ed è il caso di coloro che hanno la pretesa di sostenere simili piattaforme spiegando che non sarebbero in contrasto con la loro intima vocazione socialista) servono a garantire il piccolo cabotaggio di qualche gruppo, a soddisfare l'ego di qualche guru preoccupato soltanto di parlare in una assemblea, davanti a una telecamera.
Come abbiamo visto, invece, tutte le piattaforme che ci vengono presentate a sinistra in questo inizio d'autunno non ambiscono né a essere realizzate né tantomeno a condurre i lavoratori al potere nella società. Hanno solo la funzione di contribuire (o non ostacolare) la costruzione di un governo di alternanza post-Berlusconi: quindi un altro governo nemico dei lavoratori, degli immigrati, dei giovani proletari.
Riassumendo: Rifondazione presenta un programma che non dia fastidio al Pd, per essere ammessa nel "nuovo" centrosinistra. Sel e Rinaldini-Casarini invocano primarie del centrosinistra per guadagnarsi una parte lì dentro. Cremaschi presenta i "cinque punti" per ritagliarsi un ruolo nella stessa grande famiglia. Il variopinto seguito che ha aderito alla piattaforma in cinque punti per lo più non ha un progetto politico preciso e mira solo a sopravvivere in uno spazio più o meno illuminato dai riflettori. Col prossimo governo di centrosinistra tutti quanti daranno un qualche contributo: chi con ministri e chi senza, chi con un sostegno convinto e chi con un sostegno critico: qualcuno si spingerà (azzardiamo una previsione) sino ad essere molto critico. Non mancheranno nemmeno quelli che, dopo aver seguito abbaiando e citando Lenin (un Lenin da quarte di copertina) tutta la carovana, collocheranno le loro truppe (reali o presunte) "all'opposizione" del nuovo governo: ma solo dopo aver rinunciato a ogni battaglia reale oggi contro queste manovre: anzi partecipando ad esse pur se con piglio più "leninista" di tutti (e se nel frattempo ci scappa un distacco sindacale o una poltroncina dorata in Fiom non si rifiuta).
Per orientare diversamente la lotta c'è allora bisogno di un altro programma. Un programma che preveda la scala mobile delle ore di lavoro, l'assunzione di tutti i lavoratori precari, la diminuzione dell'età pensionabile, il permesso di soggiorno e la cittadinanza con pieni diritti per tutti gli immigrati, l'occupazione e l'esproprio sotto controllo operaio delle imprese, a partire da quelle che licenziano, l'esproprio delle banche, ecc.
Si tratta di contrapporre ai piani della borghesia un piano operaio su cui costruire comitati di lotta coordinati su scala nazionale e, in prospettiva, internazionale. Serve una grande mobilitazione di massa che sfoci in uno sciopero generale prolungato per cacciare Berlusconi ma anche per impedire che sia sostituito da un altro governo padronale (e nulla cambia se a dirigerlo sarà Vendola al posto di Bersani).
Agli scettici che ritengono tutto ciò "folle" o "irrealistico" (mentre giudicano realistiche le fantasie che si ispirano a Lord Keynes) rispondiamo: guardate a quello che hanno fatto le masse arabe. Anche quelle rivoluzioni sembravano ad alcuni "irrealistiche" solo qualche mese fa. Poi sono diventate realtà. Perché, come spiegava Trotsky, "la rivoluzione appare come pazzia solo a coloro che spazza via e annienta."