di Alberto Madoglio

Diventerà più facile ricorrere a licenziamenti individuali e collettivi: in mancanza della “giusta causa”, il padrone dovrà corrispondere solo un misero indennizzo economico. In questo modo passa il concetto che diritti inalienabili dei lavoratori possono essere cancellati in cambio di una mancia.
In caso di disoccupazione, al lavoratore verrà corrisposta una somma (per la durata di due anni, ridotti a circa 70 settimane dal 2017) dal quarto mese ridotta del 3%: più lunga è la disoccupazione meno si prende come sussidio.
Rimangono tutte le diverse forme di lavoro precario oggi previste: a tempo determinato, somministrazione, a chiamata, con i voucher, apprendistato e part time. Il Jobs Act quindi non solo cancella i diritti dei lavoratori a tempo indeterminato ma non elimina la precarietà nel mondo del lavoro.
Infine per quanto riguarda il demansionamento, i decreti sanciscono che al lavoratore viene confermato il salario dell’inquadramento superiore (salvo le parti accessorie). Tuttavia in un capoverso finale si prevede il ricorso a accordi individuali in “sede protetta” (sic), in cui si può applicare al demansionamento la riduzione di salario. In poche parole il lavoratore, sotto minaccia di licenziamento, sarà costretto ad accettare la riduzione del proprio salario.
Come si può intuire, ci si trova di fronte a un attacco senza precedenti al mondo del lavoro da parte della borghesia italiana e del suo governo, nel tentativo disperato di poter mantenere i propri profitti, duramente colpiti da oltre 8 anni di crisi economica e da una concorrenza internazionale sempre più spietata.
La risposta che, in presenza di questo attacco ai lavoratori, danno le maggiori organizzazioni sindacali italiane, è non solo del tutto insufficiente, ma dimostra una volta di più come le burocrazie sindacali siano direttamente responsabili del peggioramento delle condizioni di vita di milioni di proletari nel Paese.
Scioperi, cortei, mobilitazioni vengono convocati quando non ne si può fare a meno, con un’ottica di routine. Nella visione delle burocrazie, non servono ad innalzare il livello dello scontro di classe, ma sono lo strumento da usare come merce di scambio, per dimostrare a governo e padroni che il sindacato ha ancora un largo sostegno tra gli operai e gli impiegati e che quindi ogni riforma (o meglio controriforma) in campo sociale deve essere contrattata con loro.
Nonostante ciò, governo e borghesia rifiutano ogni concessione anche di facciata, consapevoli della grande occasione che possono sfruttare: sferrare un colpo definitivo alle poche garanzie di cui oggi i lavoratori beneficiano. E, nonostante tutto, Cgil e Fiom continuano nella loro politica di capitolazione. La segretaria Camusso avanza la ridicola proposta di una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare, avente come obiettivo la nascita di un "Nuovo Statuto dei Lavoratori". A questa proposta si lega la possibilità di un referendum abrogativo del Jobs Act.
Né la linea Camusso né quella Landini sono in grado di rispondere all’attacco lanciato dal governo, né hanno la minima possibilità di ridare slancio alla mobilitazione: lo sciopero del 19 marzo sarà l’ennesima innocua parata che avrà come risultato quello di demoralizzare quei settori di operai che ancora non si vogliono arrendere. La legge di iniziativa popolare marcirà nei cassetti di Montecitorio, mentre il referendum abrogativo del Jobs Act, se mai si farà, si svolgerà quando la nuova legge avrà già manifestato tutti i suoi effetti negativi sulla capacità di resistenza dei lavoratori.
La stessa volontà di rilanciare la mobilitazione partendo dai luoghi di lavoro, non risulta credibile: l’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio dello scorso anno fortemente voluto dalla Cgil e poi, dopo qualche schermaglia iniziale, dalla Fiom, ha come risultato quello di rendere molto complicata la conflittualità nei luoghi di lavoro. Nei fatti si tenta di scaricare sui lavoratori la responsabilità del tradimento perpetrato dai burocrati sindacali.