Contro la guerra imperialista da un versante di classe

A meno di 500 chilometri dall’Italia
(471 chilometri di distanza Ragusa-Tripoli), a poco meno di trenta minuti di
volo, c’è la Libia ed è in Libia che si trovano le più vaste riserve petrolifere
del continente africano. La compagnia straniera maggiormente coinvolta in questa
ricchezza è la compagnia italiana Eni che controlla circa il 70% della
produzione libica complessiva.
Fra marzo e maggio del 2015, inoltre, sono
state annunciate, in due siti nel Paese, altre due importanti scoperte di
giacimenti di gas e, in entrambi i casi, l’italiana Eni è operatore
unico.
Ma oltre ad Eni, in Libia ci sono gli interessi della Total
francese, della spagnola Repsol, della tedesca Wintershall, dell’americana
Occidental, delle canadesi Suncor e Petro-Canada, dell’austriaca OMV, delle
statunitensi Conoco Phillips, Marathon, Hess.
Ma non sono certo le gravi condizioni materiali dei libici a preoccupare i rappresentanti delle grandi potenze occidentali che preparano una nuova guerra.
La situazione della Libia è estremamente frammentata (alcune fonti parlano della presenza di circa 140 cosiddette tribù e circa 230 milizie armate). L’Isis, come aveva già fatto in Siria ed in Iraq, ha approfittato della situazione caotica e sta riuscendo ad attrarre alcune delle numerose tribù in lotta fra loro, consolidandosi in numerose aree strategiche. Ma in Libia l’Isis non è così forte come le potenze interventiste vogliono fare credere; è chiaro che riesce a riempire i vuoti di potere, in questa o quella situazione, ma al momento è solo in grado di attaccare le infrastrutture o di condurre una guerra d’azioni suicide mentre sembra non avere la forza di impossessarsi dei giacimenti di petrolio. Un fattore importante e determinante è la presenza in Libia di due governi in competizione fra loro: Tripoli e Tobruk (quest’ultimo riconosciuto dalle potenze occidentali). E’ recente l’intesa per un Governo d’accordo nazionale (GAN) fra Tripoli e Tobruk, accolto con grande appoggio e favore dai governi di Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti e avallato dall’Onu. Se questo progetto decollasse, al governo italiano potrebbe essere affidato, con il già incassato appoggio degli Usa e delle altre potenze, un ruolo d’addestramento delle milizie locali, per provare ad evitare una guerra dagli imprevedibili sviluppi, e questa è la soluzione che il governo Renzi guarda ad oggi con più favore. Ma la complessità della situazione e la difficile opera di ricomposizione fra forze diverse (e che soprattutto guardano a diverse alleanze) ha messo in questi giorni in luce anche la possibilità di una soluzione più pragmatica: non ci si farebbe problemi a scaricare il Parlamento di Tobruk a vantaggio delle forze islamiste di Tripoli, con l’obiettivo di arrivare alla spartizione della Libia in tre aree: Tripolitania (dove c’è il concentramento dei siti Eni e dove il governo italiano potrebbe dislocare i 5.000 soldati), Cirenaica e Fezzan.
Nel 2011, all’interno della guerra scatenata dall’imperialismo occidentale per salvaguardare i propri interessi geo-strategici ed energetici dall'avanzata della rivoluzione, l’intervento dell’allora premier francese Nicolas Sarkozy aveva, fra i suoi specifici obiettivi nazionalisti, anche quello di evitare che Mu’ammar Gheddafi sostituisse, come sembrava volesse fare, il Franco francese africano (CFA), utilizzato in 14 ex colonie, con una nuova valuta pan africana ed inoltre, soprattutto, quella di garantirsi l’influenza geopolitica in questa ricca e strategica area dell’Africa. Al contempo si trattava di una guerra non dichiarata fra gli interessi della francese Total contro gli interessi dell’italiana Eni. Cambiano i presidenti ma non cambia la necessità di garantire, e possibilmente aumentare, gli enormi interessi del capitalismo francese, nello specifico della compagnia petrolifera francese. E così la portaerei francese Charles De Gaulle compie manovre al confine fra Libia e Tunisia, in collaborazione con la marina egiziana.
Ma la Francia non è sola: anche Usa e Regno Unito stanno svolgendo operazioni di preparazione alla guerra.
E l’Italia?
In queste ore, mentre scriviamo, le salme dei due tecnici italiani uccisi in Libia, Salvatore Failla e Fausto Piano, stanno rientrando in Italia mentre i familiari di Failla convocano una conferenza stampa per accusare lo Stato di non aver saputo tutelare la vita del lavoratore ucciso.
Il governo Renzi, davanti alla pressioni guerrafondaie, è in difficoltà, fra la consapevolezza della necessità di assicurarsi a breve un sostegno elettorale (secondo l’ultimo sondaggio Ixe, l’81% degli italiani è contrario ad un altro intervento militare) e la necessità di rispondere positivamente alle richieste del suo padrone, il capitalismo italiano, che fa pressioni affinché il governo non si faccia estromettere dal tavolo intorno al quale sono seduti i governi interventisti e che deciderà della spartizione della Libia.
Anche la drammatica tragedia dei profughi è un argomento usato dal governo, in evidente difficoltà, per prendere tempo, come si evince dalle recenti dichiarazioni del ministro Alfano: “l’intervento militare del 2011 in Libia ha prodotto solo macerie. E l'Italia ne paga ancora il conto. Il 96 per cento degli sbarcati sulle nostre coste proviene dalla Libia: l'instabilità politica legata alla caduta di Gheddafi è diventata un boomerang per l'Europa. Prima di decidere come intervenire bisogna valutare tutto lo scacchiere. La cosa più importante è la nascita di un governo d’unità nazionale in Libia con cui discutere come presidiare le frontiere, per noi si tratta di un enorme sollievo...”.
Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, è ancora più chiaro e afferma: “…dobbiamo chiederci qual è il nostro interesse nazionale. Bene, il nostro interesse nazionale è evitare il collasso della Libia, che trasformerebbe quel Paese in una polveriera e accentuerebbe la crisi umanitaria. Serve un governo legittimo capace di riconciliare l'enorme quantità di milizie presenti in Libia”.
La questione è il desiderio, per il governo italiano, di una “guerra legale”, di avere l’avallo di un governo libico unitario e legittimo che possa avanzare una richiesta di aiuto al Consiglio di sicurezza Onu, ma questa timidezza non è condivisa, ad esempio, dall’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che ha definito le posizioni del governo “condivisibili ma criptiche”, apprezzando la “prudenza” del governo ma invitando a non inseguire “un pacifismo vecchio stampo che non corrisponde alla realtà”.
Negli scorsi anni, dopo il rovesciamento in Tunisia e in Egitto dei governi dittatoriali, si è diffusa la sollevazione delle masse popolari. Libia, Bahrein, Yemen e tutta la regione del Nord Africa e del Medio Oriente, fino alla Siria, sono stati teatro di processi rivoluzionari impensabili fino a qualche anno prima, ai quali si è contrapposta una violenta controrivoluzione che, pur manifestandosi in forme diverse, ha visto come protagonista assoluto l'imperialismo, che aveva la necessità di salvaguardare i propri interessi geo-strategici ed energetici dall'avanzata della rivoluzione.
Bisogna ricordare che nelle rivoluzioni tunisina ed egiziana l'imperialismo ha puntato su borghesie nazionali in loco mentre al contempo sfiduciava dittatori amici fino al giorno prima. Nel caso della Libia, appena iniziate le sommosse, ciò non è avvenuto perché Gheddafi, al contrario degli altri dittatori, sembrava in grado di fare da sé, rispondendo subito alle rivolte con una violenta repressione. Inoltre, non va dimenticato che Ghedaffi, sin dagli anni ’90, aveva incoraggiato l’entrata degli interessi delle borghesie mondiali nel Paese, attraverso un processo di privatizzazioni seguito al precedente periodo di nazionalizzazione (la sua “terza via”) della fine degli anni sessanta.
Gheddafi, quindi, nel periodo delle rivoluzioni arabe e del Medio Oriente, era ancora guardato come un amico dal capitalismo mondiale e sembrava in grado di contrastare in modo autonomo la ribellione interna. Ma nonostante la ferocia della repressione nei confronti del suo popolo, ad un certo momento fu chiaro che aveva difficoltà ad assicurarsi il controllo del Paese: la guerriglia era sempre più diffusa e minacciava seriamente gli interessi geostrategici ed economici. Era necessario, quindi, per Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, inscenare la solita “guerra umanitaria” bombardando la Libia per “salvare i libici dal violento dittatore”.
Purtroppo, il Consiglio Nazionale Libico, l'organismo di governo provvisorio delle zone liberate, non era certo la direzione che occorreva alla rivoluzione in Libia essendo composto da personale politico e militare che fino il giorno prima era compromesso col regime e che cercava di ritagliarsi un ruolo nel futuro assetto del Paese allo scopo di governare i propri interessi di nascente borghesia nazionale e allo stesso tempo quelli che l'imperialismo statunitense ed europeo avevano nella regione.
La rivoluzione libica è stata un processo profondo che ha portato alla sconfitta dell’apparato militare del regime di Gheddafi, alla cacciata del dittatore e al suo linciaggio (Ghedaffi, che alcune statistiche ipotizzano essere stato l’ottava persona più ricca del mondo, fu catturato e ucciso dai ribelli il 20 ottobre 2011; anche se fossero vere le ipotesi di complotto, che legano la sua morte ai servizi segreti francesi, la fine del dittatore è stata una vittoria delle e per le masse popolari oppresse della Libia).
Purtroppo, a causa della mancanza di una direzione rivoluzionaria, l’imperialismo occidentale e i nuovi governanti libici sono riusciti a deviare, in senso reazionario, il cambiamento. L’intervento delle bombe occidentali, unito all’assenza della direzione rivoluzionaria, non ha permesso alla rivoluzione “incosciente” delle masse libiche di avanzare fino alla presa del potere politico che avrebbe dovuto portare, per assicurare la giustizia e la pace sociale, all’instaurazione di un governo operaio, contadino e popolare. Lo sfinimento di una guerra che ha portato a migliaia di morti e ad innumerevoli tragedie e sacrifici, ha lasciato terreno fertile per la propaganda dell’imperialismo straniero e delle borghesie libiche che hanno messo in primo piano la “ricostruzione delle istituzioni” (le loro istituzioni).
Al contempo non pensiamo che né l’Onu né le Costituzioni borghesi siano i soggetti da richiamare negli appelli alle mobilitazione contro le guerre, in quanto strumenti della stessa classe dominante che, anche attraverso questi strumenti, affama e conduce alle guerre milioni di persone in tutto il mondo. Non pensiamo nemmeno che si possa chiedere di rispettare i trattati ai nostri nemici di classe, trattati che, anche se rispettati, non muterebbero sostanzialmente il quadro di sfruttamento e rapina delle masse popolari a livello mondiale; solo la fine del capitalismo può gettare le condizioni per una pace duratura e ogni mobilitazione contro la guerra dovrebbe contenere quest’obiettivo irrinunciabile accompagnata dalla parola d’ordine della costruzione del socialismo, condizione irrinunciabile per la fine della barbarie rappresentata dalla guerra.
Come facciamo in ogni occasione di lotta appoggeremo, e aiuteremo a costruire, le prossime mobilitazioni contro la guerra per colpire uniti, pur marciando separati dal punto di vista programmatico e della piattaforma. E’ nostra intenzione continuare, in modo costruttivo, a porre all’ordine del giorno la necessità che le parole d’ordine da avanzare contro le guerre imperialiste non possano appiattirsi ad un mero pacifismo interclassista e senza prospettive ma debbano contenere l’obiettivo di rispondere politicamente alla questione del potere. Affinché possa diventare possibile la sconfitta della guerra e la costruzione di una pace duratura, pensiamo che non si debbano cercare accordi con gli apparati degli Stati imperialisti guerrafondai e con i loro amici, ma sia necessario appoggiare le rivolte e le rivoluzioni delle masse popolari in lotta, per la formazione di governi indipendenti dall’imperialismo e dai suoi agenti nazionali e per arrivare, nel caso del Nord Africa e del Medio Oriente, alla costruzione di una Federazione delle repubbliche socialiste arabe e, per quanto riguarda noi, ricordandoci che “il nemico principale è in casa nostra”, lottare contro le politiche del governo Renzi e dell’Unione europea, lavorando nella prospettiva di costruire gli “Stati Uniti Socialisti d’Europa”.
Solo questa, a nostro avviso, sarà la “soluzione realista” contro la guerra, la fame, la distruzione della natura, frutti avvelenati del capitalismo. Ogni altra presunta scorciatoia, più comoda, non potrà che riproporre e perpetuare il sistema esistente.